PROFESSIONI CON OBBLIGAZIONE DI MEZZO

L'AVVOCATO E' UN PROFESSIONISTA CON OBBLIGAZIONE DI MEZZO O DI RISULTATO?

Può l'impegno assunto dall'avvocato nei confronti del cliente tradursi in un'obbligazione di risultato? E se si in quali casi e con quali conseguenze?

L'avvocato ha nei confronti del cliente un obbligo di mezzi e non di risultato. Detto schema negoziale ha come conseguenza che la prestazione del professionista vada retribuita a prescindere dall'esito della controversia.

Uno schema che negli ultimi anni ha riscosso un certo seguito in campo legale è il c.d.patto quota lite, ovvero l'accordo secondo cui avvocato e cliente stabiliscono i compensi in base ad un calcolo percentuale da operarsi sull'effettiva utilità patrimoniale derivata al cliente dall'attività professionale.

OK MA...................

Le parti, nel libero esercizio della loro autonomia contrattuale, possono convenire che a carico del professionista vi sia un obbligazione non di mezzi ma di risultato. Le conseguenze di un simile accordo possono essere:

  • in caso di risultato utile il pagamento del corrispettivo pattuito;
  • in caso di mancanza di risultato per fattori esterni la perdita del diritto al compenso;
  • in caso di mancanza di risultato imputabile al professionista diritto al risarcimento del danno.



LA RESPONSABILITA' CIVILE DELL'AVVOCATO E LA SUA ASSICURAZIONE

1. La responsabilità dell'avvocato – nessi di causa e danno risarcibile.

La responsabilità dell'avvocato evoca le principali tematiche della RC del professionista, sia con riferimento alla contraddittoria tematica dell'obbligazione di risultato, sia con riferimento alla prova del nesso di causa fra errore e danno, sia alla risarcibilità della cd."perdita di chance".
Se, in ambito sanitario, la giurisprudenza ha intrapreso da qualche anno rotte innovative che portano, sostanzialmente, a dichiarare la sopraggiunta inadeguatezza della distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato, spingendosi, poi, su sentieri pionieristici circa l'applicabilità alle obbligazioni contrattuali delle previsioni dell'art.1218 c.c., con le già viste conseguenze in tema di prova del nesso causale, la responsabilità dell'avvocato, rappresenta, invece, il terreno ove la Suprema Corte ha, fino ad ora, mantenuto un'impostazione più tradizionale e meno "client oriented".
Infatti la Cassazione ha confermato il proprio orientamento secondo il quale, ai fini della dimostrazione di una responsabilità in capo al professionista, il cliente è tenuto a provare che una diversa attività di quest'ultimo avrebbe determinato maggiori vantaggi e che è necessario raggiungere la prova che gli effetti di una diversa attività del professionista sarebbero stati vantaggiosi per il cliente.
Le ragioni di questa diversità rispetto all'orientamento in tema di responsabilità professionale sanitaria sono, in realtà, da rinvenire non tanto in una schizofrenica visione delle diverse aree di attività professionali, quanto nella natura stessa della prestazione.

In effetti la professione legale porta con sé margini di interpretazione e di "non esattezza" che sono l'opposto della rigorosa scientificità (o presunta tale) dell'arte medica, mancando quella universale confermabilità e riproducibilità del medesimo esperimento nelle medesime circostanze.
Anzi, nessuna sentenza è ripetibile perché nessun giudizio o processo lo è, uniche ed irripetibili sono le valutazioni, le emozioni delle parti processuali, le testimonianze, lo stesso esperimento dei mezzi di prova, sicché in nessun momento un legale potrà garantire l'esito di un giudizio, non tanto perché la sua è un'obbligazione di mezzi, come stancamente la dottrina talvolta ripete, ma in quanto perché sarebbe come garantire l'imprevedibile, come essere responsabili dell'altrui pensiero e dei convincimenti che la Corte dovrebbe raggiungere secondo un'ottica follemente meccanicistica.
La realtà, fortunatamente, bisogna aggiungere, non è così e, dunque, un legale non può assumere obbligazioni su ciò di cui non può disporre (come del resto non può farlo il medico o qualsiasi altro professionista), né gli si può chiedere di dare prova di cosa sarebbe accaduto in assenza (o presenza) di un determinato atto e/o comportamento, semplicemente perché il processo degli eventi non è nella sua disponibilità e, di conseguenza, il principio della "vicinanza della prova" non può trovare applicazione in questo ambito.
Questa è la reale spiegazione del perché, correttamente, al cliente - che si assuma danneggiato dall'attività del proprio procuratore - è chiesto di dimostrare che l'errore del professionista è la causa del danno lamentato e che un'attività del professionista, diversa da quella difettosa concretamente posta in essere, avrebbe per lui avuto effetti più vantaggiosi.
Ed in fondo la prova del nesso causale (sia pure astrattamente idoneo) è comunque posto a carico del debitore anche nella responsabilità professionale medica.
Valgono, invece, le medesime considerazioni svolte per le professioni sanitarie per quanto attiene ai criteri probabilistici in merito alla dimostrazione del nesso di causa in tema di perdita di chance (lesione di un bene diverso dalla perdita completa dello stesso) ed in merito agli obblighi informativi del professionista, vale a dire.
Criterio probabilistico: alla tesi dell'assoluta certezza, molto più coerente con il principio costituzionale-penalistico della presunzione di innocenza si sostituisce quello della ragionevole certezza, sostanzialmente in linea con il "più probabile che no" .

Perdita di chance: (Es.perdita della chance di vincere la causa): è risarcibile in quanto danno in sé, inteso come perdita di un bene, cioè la possibilità e la speranza di perdere il bene finale. Può consistere in un danno emergente o, anche, in un lucro cessante.
Obbligo informativo: l'avvocato ha il dovere di informare il proprio assistito sulle possibilità di successo della causa, al fine di metterlo in condizione di decidere circa l'opportunità o meno di svolgere l'azione giudiziaria, secondo i medesimi principi del consenso informato in ambito medico. Solo in presenza di una corretta informazione fornita dal legale, infatti, si potrà ritenere formato ed informato il consenso del cliente al conferimento dell'incarico, e all'inizio/prosecuzione della causa.
A tal proposito tanto nella Legge professionale forense (L. 247/2012) quanto all'interno del nuovo codice deontologico, in vigore dal 15 dicembre 2014, tale obbligo di informativa nei confronti del cliente ha trovato apposito e specifico riconoscimento. Ed infatti la L. 247/2012 espressamente prevede all'art. 13 co. V che "Il professionista è tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico; a richiesta è altresì tenuto a comunicare in forma scritta a colui che conferisce l'incarico professionale la prevedibile misura del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale."
Nello stesso senso all'interno del riformato codice deontologico forense - art. 27 co. 1 e 2 – è stato previsto che "L'avvocato deve informare chiaramente la parte assistita,all'atto dell'assunzione dell'incarico, delle caratteristiche e dell'importanza di quest'ultimo e delle attività da espletare,precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione. 2. L'avvocato deve informare il cliente e la parte assistita sulla prevedibile durata del processo e sugli oneri ipotizzabili; deve inoltre, se richiesto, comunicare in forma scritta, a colui che conferisce l'incarico professionale, il prevedibile costo della prestazione."
Ricordiamo, infine, che nella gestione dei sinistri relativi alla responsabilità professionale dell'avvocato, la tematica della necessità che il cliente sia in grado di provare che una diversa difesa avrebbe garantito un risultato più vantaggioso, attiene alla prova della responsabilità e, dunque, non può essere argomento per l'assicuratore per negare assistenza al professionista assicurato, ma, al contrario, sarà una delle linee difensive che il liquidatore della compagnia dovrà utilizzare per la difesa del legale nell'adempimento del proprio obbligo a tenere indenne l'assicurato da ingiuste pretese.
Nell'accertamento dell'eventuale responsabilità non si potrà non tenere conto che, in virtù del più volte citato art.1176 c.c., la colpa professionale presuppone la violazione del dovere di diligenza professionale media esigibile, da commisurare, ovviamente, alla natura dell'attività esercitata.
Peraltro, se il riferimento è dato dalla diligenza del buon professionista, l'avvocato non risponde per colpa lieve, ex art.2236 c.c., se la prestazione implica la soluzione di problemi di particolare difficoltà la cui valutazione è rimessa alla competenza esclusiva del giudice di merito.

2. La garanzia di RC e la gestione della lite

Sotto un profilo assicurativo va ribadito che l'assicuratore di responsabilità civile (non auto) è obbligato solo verso l'assicurato, e non anche verso il terzo danneggiato, sicché da ciò deriva la distinzione fra garanzia e responsabilità: occorre infatti ricordare che l'assicuratore adempie al proprio obbligo di tenere indenne l'assicurato dalle richieste risarcitorie del terzo anche quando ne contesta la fondatezza: nell'assicurazione di responsabilità civile è compito dell'assicuratore difendere il proprio assicurato quando ritenga infondate le pretese di parte avversa.
L'assicuratore RCG, quindi, di norma, deve, preliminarmente, stabilire, in sede di denuncia del sinistro e di ricezione da parte dell'assicurato della richiesta di risarcimento pervenutagli dal terzo, se la fattispecie rientri nelle garanzie prestate e, in caso affermativo, valutare l'opportunità di difendere il proprio assicurato, oppure dar corso alla liquidazione del danno tacitando il danneggiato (ovviamente, nei limiti delle condizioni contrattuali di polizza ed adempiendo, in tal modo, la propria obbligazione di tenere indenne il patrimonio dell'assicurato dalla pretesa del terzo).
Pertanto, l'assicuratore può procedere alla liquidazione del danno al terzo o versare l'importo in questione al suo assicurato, ad estinzione di ogni suo ulteriore obbligo; tuttavia, se ritenuto opportuno (nei limiti ovviamente della buona fede e dei criteri di corretta gestione degli interessi dell'assicurato), può negare, il risarcimento al terzo difendendo la posizione del suo assicurato e facendosi carico dei costi e degli adempimenti necessari alla difesa, entro i limiti di cui all'art.1917 c.. IV comma.
Tenere indenne l'assicurato, come prevede l'art.1917 c.c., per l'assicuratore non significa, quindi, soltanto pagare, nei limiti previsti dal contratto, quanto dovuto al terzo dall'assicurato/responsabile civile, ma può anche significare tutelare l'assicurato da pretese ritenute ingiuste, accollandosi l'onere di sostenere i costi necessari per la difesa fino all'importo massimo del quarto del massimale o del reciproco interesse in caso di incapienza dello stesso, come previsto dall'ultimo comma del citato art.1917 c.c..
Dunque, anche la difesa dell'assicurato, o, se vogliamo, la contestazione delle pretese del terzo danneggiato, costituiscono adempimento da parte dell'assicuratore, che può essere contestato dall'assicurato solo dimostrando la cd."mala gestio", cioè una gestione del sinistro contraria ai principi della buona tecnica e della buona fede, e tale da arrecare pregiudizio alle posizioni che si intendevano o si dovevano tutelare.

3. La copertura di R.C. professionale dell'Avvocato.

La copertura della R.C. professionale è una copertura "claims" che rientra nella categoria delle polizze per le professioni liberali.
La garanzia prevede l'obbligo della società di tenere indenne l'assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare, quale civilmente responsabile a sensi di legge, a titolo di risarcimento per perdite patrimoniali involontariamente cagionate a terzi in conseguenza di errori commessi nel compimento delle attività previste dalla legge per l'esercizio della professione di avvocato con studio in....... (indicazione del/dei recapiti del/degli studi).
E'sovente richiesto di precisare il numero dei collaboratori operanti all'interno dello studio ed opera, generalmente, l'esclusione dei danni che siano la conseguenza dell'attività svolta dall'assicurato nell'ambito di incarichi di amministratore, Consigliere d'amministrazione, Sindaco, Curatore fallimentare o Commissario giudiziale nelle procedure di concordato preventivo e di amministrazione controllata, nonché di commissario liquidatore nelle procedure di liquidazione coatta amministrativa.
Una prima considerazione nasce dal chiaro riferimento all'attività più propriamente caratterizzante la professione di avvocato e che rappresenta l'ambito entro il quale la professione diviene esclusiva, nel senso che attività differenti (quale ad esempio la consulenza aziendale o incarichi in procedure fallimentari) fanno certamente parte delle possibili competenze professionali dell'avvocato ma sono anche esercitabili da altre figure (commercialisti, ad esempio), ma la rappresentanza processuale conferita con procura alle liti costituisce attività caratterizzante ed esclusiva del professionista in questione.
Se, dunque, la garanzia opera per le perdite patrimoniali conseguenti all'attività che l'avvocato può svolgere in via esclusiva, occorre verificare, caso per caso, se tale operatività possa essere estesa anche ad altre ipotesi, come, ad esempio, la consulenza aziendale piuttosto che la contrattualistica.
La dizione standard delle coperture esistenti sul mercato induce a ritenere del tutto pacifico che rientri nell'obbligo indennitario dell'assicuratore qualsiasi attività (che abbia dato luogo a richieste risarcitorie) inerente la professione legale, anche se non riservata in via esclusiva ad essa.
Un'eccezione a questo principio di carattere generale, ovviamente applicabile "simmetricamente" alle altre coperture sottoscritte da professionisti diversi che condividano le aree di attività comuni (si pensi alla redazione di ricorsi tributari piuttosto che alla predisposizione di un contratto), parrebbe porsi nei casi in cui a cambiare sia la "natura" stessa del rischio.
Non risultano - a chi scrive - specifici precedenti giurisprudenziali sul punto ma, a rigor di logica, appaiono ragionevoli quelle esclusioni di garanzia per attività che, pur svolte anche in ragione del prestigio professionale acquisito, attengano a funzioni di natura pubblicistica o societaria tali da aggiungere al rischio tipico della professione un "quid" che solo un supplemento di premio o, comunque, la volontà delle parti possono eventualmente far rientrare.
Del pari non appaiono compatibili con la copertura le richieste risarcitorie conseguenti ad attività che l'avvocato abbia svolto in virtù di proprie personali e specifiche competenze ma non strettamente inerenti la professione.
Nessuna menzione, viene poi fatta, in genere, a possibili estensioni della copertura ai danni a persona, sicché la limitazione della garanzia alle sole perdite patrimoniali subite dal cliente in ragione dell'errore professionale dell'Avvocato parrebbe escludere dalla garanzia (salvo, ovviamente, specifica previsione in polizza) qualsiasi richiesta per danni, ad esempio, di natura biologica (disturbo post traumatico da stress, depressione ecc...) conseguenti ad un errore professionale.
Nell'ambito, invece, delle perdite patrimoniali, la garanzia risulta pienamente operante a condizione che l'ipotesi di responsabilità sia riferibile ad un professionista espressamente identificato in polizza o ad un collaboratore del cui operato il professionista debba rispondere, non risultando, invece, in garanzia l'eventuale richiesta risarcitoria avanzata nei riguardi di un'attività svolta, ad esempio, dal socio di una sede secondaria dello studio non indicato/a all'assicuratore.

4. La clausola claims made.

La definizione di "claims made" consente di cogliere la rilevanza data al momento di pervenimento all'assicurato della richiesta di risarcimento (per l'appunto claim) come discrimen per definire l'operatività o meno della garanzia sotto il profilo dell'efficacia temporale della copertura.
Di derivazione anglosassone, tali forme di copertura devono la loro diffusione nel mercato all'esigenza dell'assicuratore di responsabilità civile di conoscere con certezza la data nella quale cesserà l'esposizione al rischio dopo la scadenza della polizza.
L'assicuratore di responsabilità civile generale che per l'operatività della garanzia faccia riferimento ai sinistri accaduti durante la vigenza del contratto a prescindere dalla data di pervenimento di una richiesta di risarcimento (meglio nota come copertura "loss occourence"), risulta infatti indefinitamente esposto al rischio di richieste risarcitorie che pervengano anche oltre il termine prescrizionale decennale e comunque dopo che la compagnia abbia cessato da anni di percepire un premio per il rischio medesimo.
E' possibile che fatti commessi dall'assicurato in vicinanza della scadenza della copertura diano origine, a distanza di anni ma entro i termini di prescrizione o di decadenza previsti dalla legge, a richieste risarcitorie, sicché l'assicuratore "loss", fin tanto che il diritto del terzo potenzialmente danneggiato non si sia prescritto, risulta esposto ad un rischio indennitario ben oltre la fine della polizza.
Questa "asimmetria" delle prestazioni rende, di conseguenza, molto più difficile per l'assicuratore la valutazione del rischio se non addirittura indeterminabile - e dunque non assicurabile - allorché lo stesso comportamento colposo causa dell'evento sia pressoché impossibile da collocare temporalmente.
Le coperture "claims" offrono, invece, il vantaggio di stabilire con certezza il momento nel quale l'assicuratore possa ritenere cessata l'esposizione al rischio, vale a dire la data entro la quale la richiesta di risarcimento non sarà più considerata valida ai fini della garanzia, ma gli stessi assicurati risultano favoriti dal poter contare su massimali e coperture in vigore nel momento effettivamente rilevante, vale a dire la ricezione di una richiesta risarcitoria e non l'accadimento del fatto.
Tali coperture rappresentano oramai la totalità dei prodotti assicurativi della responsabilità professionale ma non sono mancate, soprattutto nel primo decennio di questo secolo, censure in dottrina, critiche da parte di una giurisprudenza di merito e caute obiezioni da una isolata pronunzia di legittimità sul presupposto di un presunto contrasto con quanto statuito dall'art. 1917 c.c. che farebbe esclusivo riferimento al fatto come fonte dell'obbligazione indennitaria dell'assicuratore legittimando le sole coperture "loss".
La conseguenza di tale apparentemente insanabile divergenza è stata individuata in taluni casi nella nullità parziale della clausola stessa(con conseguente automatica conversione della garanzia in copertura "loss"), altre volte in una soluzione, per così dire, intermedia come quella proposta dalla Suprema Corte con la sentenza n. 5624/2005, con la quale era stata ritenuta legittima la clausola claims made, "atta a limitare la copertura assicurativa ai sinistri denunciati nel corso della vigenza contrattuale", ritenendo che essa non rientrasse "...nella fattispecie tipizzata dal legislatore..." ma integrasse "...un contratto atipico pienamente lecito...".: il "fatto", cui l'art.1917 c.c. si riferisce, non sarebbe quindi la richiesta risarcitoria formulata dal terzo danneggiato ma il danno provocato dall'assicurato; tuttavia, la clausola "claim", sia pure estranea allo schema negoziale tipico del contratto di assicurazione, non sarebbe nulla bensì renderebbe atipico il contratto stesso. Tale atipicità, tuttavia, secondo la Suprema Corte, si risolveva in una vera e propria limitazione della responsabilità a carico dell'assicuratore predisponente, determinando la natura vessatoria della clausola, "... sicché per la sua efficacia è necessaria la specifica sottoscrizione da parte dell'assicurato", ex art.1341 c.c.. Di fatto, gli attuali orientamenti giurisprudenziali, con una certa semplificazione, possono ad oggi riassumersi in quattro posizioni fra loro differenti.
Una prima, rappresentata da talune pronunce della XIII sezione del Tribunale di Roma, afferma la nullità della clausola claim in ragione del sostanziale squilibrio contrattuale che verrebbe a crearsi fra le parti, con particolare riferimento al momento conclusivo del rapporto ed alla valutazione del successivo rinnovo, ma anche negando di fatto la sussistenza di un'alea relativamente ai sinistri già accaduti seppure con claim non ancora formulato.
Una seconda, rappresentata dalla sentenza n.7273/2013 della Suprema Corte che se da un lato supera l'impostazione di talune pronunce di merito che avevano negato la legittimità della claim ai sensi dell'art.1917 c.c., ricordandone la natura inderogabile dei soli commi 3 e 4, afferma tuttavia la natura atipica del contratto che la contenga e demanda al giudice di merito la verifica, caso per caso della sua vessatorietà. Afferma in questo senso la Suprema Corte che ") "Il contratto di assicurazione della responsabilità civile con clausola a richiesta fatta (claims made) non rientra nella fattispecie tipica prevista dall'art. 1917 c.c., ma costituisce un contratto atipico, generalmente lecito ex art. 1322 c.c., poiché del suindicato art. 1917 c.c. l'art. 1932 c.c. prevede la inderogabilità - se non in senso favorevole all'assicurato - dei commi 3 e 4, ma non anche del primo, in base al quale l'assicuratore assume l'obbligo di tenere indenne l'assicurato di quanto questi deve pagare a un terzo in conseguenza di tutti i fatti (o sinistri) accaduti durante il tempo della assicurazione, di cui il medesimo deve rispendere civilmente, per i quali La connessa richiesta di risarcimento del danno, da parte del danneggiato, sia fatta in un momento anche successivo al tempo di efficacia del contratto e non solo nel periodo di efficacia cronologica del medesimo. Al riguardo, inoltre, non assume rilievo l'art. 2952 c.c., relativo alla richiesta di risarcimento fatta dal danneggiato all'assicurato o alla circostanza che sia stata promossa l'azione, trattandosi di norma che ha differente oggetto e diversa ratio, volta solamente a stabilire la decorrenza del termine di prescrizione dei diritti dell'assicurato nei confronti dell'assicuratore. Da ultimo, infine, spetta al giudice di merito accertare - caso per caso - se la clausola a richiesta fatta riducendo l'ambito oggettivo della responsabilità dell'assicuratore fissato dall'art. 1917 c.c., configuri una clausola vessatoria."
Una terza riferibile alla pronuncia della Suprema Corte n.3622/2014 che ne riconosce la validità ma che si interroga sulla potenziale vessatorietà della limitazione della garanzia rispetto ai fatti accaduti durante la vigenza del contratto ma con claim notificato successivamente ad essa.
Il passaggio logico della Corte di legittimità appare significativamente differente e più favorevole alla clausola claim allorché statuisce che "La clausola "claims made" prevede il possibile sfasamento fra prestazione dell'assicuratore e pagamento del premio, potendo risultare assicurati comportamenti anteriori alla conclusione del contratto se la domanda di risarcimento è proposta dopo tale data e potendo risultare sforniti di garanzia i comportamenti tenuti dall'assicurato nel corso della validità ed efficacia della polizza se la domanda di risarcimento è proposta successivamente alla cessazione degli effetti del contratto. Nei contratti a regime " claims made " il rischio esiste, pur se di natura e consistenza diverse da quella avente ad oggetto i comportamenti colposi dell'assicurato; l'alea non concerne i comportamenti nella loro materialità, ma la consapevolezza da parte dell'assicurato del loro carattere colposo e della loro idoneità ad arrecare danno a terzi e nel fatto che non qualunque comportamento colposo induce il danneggiato a proporre domanda di risarcimento dei danni. Nei casi in cui la domanda avviene in corso di contratto ed è riferita a comportamenti anteriori alla stipulazione, la clausola " claims made " è favorevole per l'assicurato, sicché non viene in considerazione il divieto di deroghe alla disciplina ordinaria di cui all'art. 1932 c.c., mentre nei casi in cui il sinistro si realizza nel pieno vigore del contratto d'assicurazione e la domanda viene svolta per la prima volta dopo lo scioglimento del contratto, la clausola potrebbe effettivamente porre problemi di validità venendo a mancare, in danno dell'assicurato, il rapporto di corrispettività fra il pagamento del premio e il diritto all'indennizzo per il solo fatto che la domanda viene proposta dopo lo scioglimento del contratto.".
Una quarta, infine, che ne afferma tout court la piena legittimità e che ne nega qualsiasi natura vessatoria. Afferma infatti la Corte d'Appello di Roma con sentenza del settembre 2014: "" ... La clausola "claims made" , lungi dall'escludere la sussistenza del rischio garantito, lo delimita e lo circoscrive in una prospettiva diversa da quella che discenderebbe dall'applicazione del modello loss occourence perché consente all'assicurato di garantirsi non soltanto per gli errori professionali compiuti in futuro, ma anche per quelli già eventualmente verificatisi in un determinato periodo di tempo e di cui il professionista medesimo non sia consapevole, e si pone pertanto completamente al di fuori delle clausole vessatorie, sia per gli effetti di cui all'articolo 1341 c.c., sia con riguardo alla disciplina di tutela del consumatore."

Danilo Battaglini
Responsabile Commerciale
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LA RESPONSABILITA' CIVILE DELL'AVVOCATO

RESPONSABILITA' DELL'AVVOCATO : RIGOROSA PROVA DEL PRESUNTO DANNO SUBITO

Con la recente sentenza della Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 2 febbraio 2016, n. 1984, si è posto un argine a tutela del nuovo filone risarcitorio a carico dell’avvocato. Da tempo si assiste ad un ingiustificato aumento di richieste di risarcimenti nel confronti degli avvocati, fondate spesso esclusivamente su presunti e non reali errori del professionista e finalizzate al tentativo di ottenere un ingiustificato arricchimento.

La recente riforma che ha introdotto l’obbligatorietà della copertura assicurativa per i rischi professionali connessi allo svolgimento dell’attività dell’avvocato se da un lato è condivisibile, dall’altro comporterà l’inevitabile proliferare di richieste più o meno fondate.

La sentenza in commento, pone un argine al fenomeno speculativo a discapito del professionista e delle compagnie assicurative. La Corte di Cassazione, sez. II Civile, con la sentenza 2 febbraio 2016, n. 1984, afferma che: «qualora un soggetto intenda ottenere il risarcimento per un danno che ritiene derivante da negligenza del professionista, graverà su di esso l’onere di provare lo stringente nesso di causalità tra il danno in concreto verificatosi e la condotta del danneggiante».

I fatti sottoposti all’esame della Suprema Corte riguardano un imprenditore che ha convenuto in giudizio l’avvocato che lo aveva assistito in una causa per risarcimento danni contro una società.

L’imprenditore lamentava che a causa (per mancato rispetto del dovere di diligenza) dell’avvocato suo difensore in quel giudizio, aveva ricevuto una somma notevolmente inferiore rispetto al danno patito. Di ciò, ne imputava la responsabilità esclusivamente all’operato poco diligente del proprio difensore cui contestava, tra l’altro, di non aver prodotto in giudizio documenti (scritture contabili dalle quali si sarebbe evinta la riduzione, da assenza dal lavoro per l’infortunio subito, del profitto della società ove lavorava e della quale era socio al 50%) utili a provare l’entità del maggior danno lamentato.

Nella causa di risarcimento contro la società, l’imprenditore aveva ottenuto il risarcimento del danno da invalidità permanente e non anche quello da danni morali e patrimoniali, rigettato perché mancava la prova dell’elemento psicologico, del danno emergente e del lucro cessante.

In primo grado era stata riconosciuta la responsabilità del professionista, mentre in appello è stata esclusa, in ossequio all’orientamento giurisprudenziale maggioritario, poi confermato dalla Cassazione con la sentenza in commento.

Questo l’escursus storico dei giudizi:

- il Giudice di prime cure dichiarava l’inadempimento del convenuto (avvocato) al dovere di diligenza nell’esecuzione del mandato professionale conferitogli dall’attore e rigettava ogni altra domanda; – avverso la suddetta sentenza, proponeva appello il convenuto, chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, il rigetto di ogni domanda proposta nei suoi confronti dall’appellato, con condanna dello stesso al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c.;

- costituito l’appellato imprenditore, chiedeva il rigetto dell’appello, ed in via incidentale, la condanna dell’avvocato (suo precedente difensore) al risarcimento dei danni così come chiesto nell’atto di citazione innanzi al Tribunale.

- la Corte d’Appello rigettava gli appelli principale ed incidentale e confermava la sentenza impugnata.

A sostegno della propria decisione la Corte d’Appello ha evidenziato che l’omissione compiuta dall’avvocato nella causa risarcitoria e cioè, il non aver prodotto in giudizio le scritture contabili della società ove lavorava il danneggiato, non poteva essere considerata ex se determinante ai fini del rigetto della domanda di risarcimento dei danni patrimoniali. La Corte d’Appello rileva che la contrazione dei ricavi della società poteva essere dovuta a fattori diversi ed ulteriori rispetto all’assenza dal lavoro dell’imprenditore.

Inoltre, l’imprenditore avrebbe dovuto sostenere le proprie richieste, dimostrando l’indispensabilità della sua prestazione lavorativa per la redditività della società datrice di lavoro, attraverso delle prove testimoniali che potevano chiarire il contenuto dell’attività lavorativa svolta.

La mancanza di queste prove ha fatto si che il Tribunale non abbia ritenuto provato il danno patrimoniale. Come già detto, la sentenza della Corte d’Appello è stata oggetto di impugnativa da parte dell’imprenditore e la Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i motivi di ricorso facendo leva sul presupposto che per riconoscersi la responsabilità dell’avvocato non è sufficiente l’affermazione del non corretto adempimento dell’attività professionale.

Giustamente la Suprema Corte ha rilevato che è necessario verificare, caso per caso, se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del legale, se ciò abbia prodotto effettivamente un danno ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone (orientamento già di recente confermato  dalla Cassazione sent. sez. III, 5 febbraio 2013, n. 2638).

La Corte d’Appello, rileva la Suprema Corte, ha correttamente evidenziato che la contrazione dei ricavi della società ove lavorava l’imprenditore, poteva essere causata da fattori diversi ed ulteriori rispetto all’assenza dal lavoro del ricorrente stesso, e la valenza della sua attività lavorativa avrebbe dovuto essere provata non solo con i documenti fiscali e contabili non prodotti in giudizio, ma anche con prove testimoniali, soprattutto relative ai rapporti con i singoli clienti, che invece non furono dedotte.

Dunque non è stato ritenuto sufficiente per la prova della sussistenza del danno (del nesso di causalità intercorrente tra questo e la condotta omissiva oggetto di controversia) la sola mancata produzione da parte dell’avvocato, della documentazione fiscale e contabile.

La natura del contratto : principi generali Il contratto che intercorre tra l'avvocato ed il cliente in virtù del quale il primo si impegna a prestare la propria opera professionale in favore del secondo è qualificato dalla giurisprudenza come mandato professionale a tempo (cfr. cass. 63/326). Può avere ad oggetto sia una attività giudiziale che stragiudiziale. Il cliente è colui che ha conferito l'incarico al professionista e che non necessariamente coincide con colui nel cui interesse la prestazione deve essere eseguita, il cliente è tenuto al pagamento del corrispettivo al professionista, Il rapporto tra cliente e professionista è regolato dalle norme sul mandato e, dagli art. 2230 e ss. del c.c. E dalle norme del codice di deontologia professionale. Nell'ipotesi di associazione tra professionisti il mandato rilasciato dal cliente ad uno di essi non può presumersi esteso impersonalmente e collettivamente a tutti i professionisti atteso il carattere personale e fiduciario.(cfr. Cass. Civ. II sezione n. 11922 dell'11/9/2000). Al fine di esaminare la responsabilità dell'avvocato bisogna far riferimento all' Art. 1176. Diligenza nell'adempimento “ “Nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata.” all' Art. 1218. Responsabilità del debitore “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. all'Art. 2236. Responsabilità del prestatore di opera “ Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”. La responsabilità dell'avvocato può essere a) penale ad. es. art. 380 c.p., patrocinio o consulenza infedele, 381 altre infedeltà del patrocinatore o del consulente tecnico, b) disciplinare; c) e civile. La responsabilità dell'avvocato va inquadrata nell'ambito della responsabilità del professionista che negli ultimi anni ha avuto una rapida evoluzione. L'obbligazione dell'avvocato assunta mediante la stipulazione di un contratto professionale di prestazione d'opera intellettuale è ritenuta comunemente una obbligazione di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista assumendo l'incarico, si impegna a porre in essere tutte le condizioni tecnicamente necessarie per consentire al cliente la realizzazione dello scopo perseguito, ma non a conseguire il risultato. Occorre quindi fare riferimento al criterio della diligenza esigibile ai sensi dell'art. 1176 c.c.II comma rapportata alla natura dell'attività esercitata, cosicchè la diligenza da impiegare nello svolgimento dell'opera prestata in favore del cliente è quella del professionista di preparazione tecnica e di attenzioni medie. L'art. 2236 c.c. prevede una deroga alle norme generali che disciplinano l'inadempimento, giustificata dalla natura e dal contenuto della prestazione richiesta, allorchè questa comporti la soluzione di questioni tecniche di particolare difficoltà, nel qual caso potrà essere ravvisata la responsabilità del professionista solo in caso di dolo o colpa grave. Gravano inoltre sul professionista oneri informativi -onere che come vedremo avranno valenza sempre maggiore ai fini della valutazione della responsabilità. In particolare l'avvocato, malgrado l'obbligazione assunta sia di mezzi e non di risultato, deve adempiere sia all'atto del conferimento dell'incarico che nel corso dello svolgimento dello stesso anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione informazione essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti ostative al raggiungimento del risultato e comunque produttive di rischio e di effetti dannosi, di richiedergli gli elementi necessario o utili in suo possesso, a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. E' stato altresì precisato che il rilascio al difensore della procura necessaria all'esercizio del potere di rappresentanza in giudizio, ovvero allo jus postulandi, non è sufficiente a provare l'avvenuta informazione del cliente di tutte le circostanza indispensabili ad assumere una decisione pienamente consapevole sulla opportunità o meno di promuovere o intervenire in una controversia. In alcuni casi tuttavia l'avvocato assume una obbligazione di risultato quali ad es. verificare la sussistenza di procedure esecutive immobiliari in cui intervenire; l'interruzione del termine di prescrizione; proposizione di un appello, redazione di un parere, la redazione di un contratto. In tutti questi casi un risarcimento del danno dovrà essere riconosciuto ma sempre che , pur su base probabilistica, l'esatto adempimento avrebbe consentito in concreto di raggiungere il risultato sperato. Ipotesi tipiche di responsabilità dell'avvocato sono: 1) il colposo mancato rilievo della prescrizione: l'avvocato risponde se non eccepisce la prescrizione o se ha iniziato la causa senza aver rilevato l'esistenza della prescrizione del diritto e se eccepita la prescrizione da parte del convenuto, non abbia avvisato di ciò il proprio cliente; 2) per l'intervenuta decadenza, per la mancata colposa proposizione di una valida impugnazione, della redazione di un atto, per la mancata intimazione dei testi, per la colposa erronea interpretazione di una norma; 3) per la mancata partecipazione alle udienze, per il mancato deposito di atti e/o documenti; 4) per la mancata informazione relativa a essenziali scelte processuali; 5) per l'inadempimento dell'obbligo di rendiconto. Tutto ciò va però attentamente valutato; ad esempio la proposizione di un appello infondato potrebbe indurre le parti a transigere la causa. Gli obblighi accessori Il dovere di informazione assume un particolare importanza con riferimento all'ipotesi di recesso del professionista. Il disposto di cui all'art. 2237 III comma c.c. Prevede che “il recesso del prestatore d'opera deve essere esercitato in modo di evitare un pregiudizio al cliente”, ciò comporta che il professionista che recede dall'incarico deve informare il cliente dello stato del giudizio e degli adempimenti che restano ancora da compiere, ciò a maggior ragione ove i temoi non consentano al nuovo difensore di provvedervi. Excursus In tema di responsabilità civile del professionista a partire dagli inizi del 2000 si è verificato un mutamento rispetto alla posizione precedentemente assunta dalla giurisprudenza, volta ad una tutela sempre maggiore del cliente avente l'intento di riportare il rapporto professionista -cliente alla logica codicistica al rapporto tra debitore semplice e creditore semplice. Sino agli anni 50 l'avvocato godeva di una sorta di impunità fondata sul presupposto che la di lui responsabilità avrebbe potuto essere affermata solo dove si fosse potuto stabilire con certezza un rapporto tra diligenza ed esito favorevole ma ciòera impossibile in quanto “ogni sentenza è condizionata da una quantità di fattori inimmaginabili, da indurre a negare la sussistenza un danno risarcibile, anche in presenza di una accertata negligenza professionale” (cfr. trib. Roma 3 marzo 1954). La stessa corte di Cassazione nel 1931 (sentenza n. 495 del 10 febbraio 1931) ha affermato che il procuratore in colpa per l'omessa interposizione di appello di cui abbia assunto l'incarico dal proprio cliente può farsi carico del rimborso delle spese invano anticipategli, ma non del danno incerto ed eventuale desunto da una stima preventiva dell'esito della lite, posto che secondo la SC ”habent sua sidera lites” nel senso che nel calcolo concorrono elementi di difficile valutazione, quali l'opinione personale del giudice, il suo apprezzamento delle prove, l'apprestamento delle stesse, il corso del giudizio ecc. La responsabilità dell'avvocato era considerata una eccezione giustificata sulla base di due considerazioni 1) l'impossibilità di prevedere l'esito della lite; 2) inammissibilità del riesame di controversie già decise con sentenza passata in giudicato Basti pensare che nello stesso periodo l'errore medico l'errore medico era in una sentenza definito un ”disgraziato fardello della scienza medica”. Al cui accertamento si procedeva tenendo conto di cautele, esimenti e scusanti, e ove mai verificata la responsabilità medica godeva di attenuanti. Il riferimento alla responsabilità medica non è casuale perchè proprio tale responsabilità ha assunto una posizione centrale in tema di responsabilità di professioni intellettuali ed è destinata a far da traino alla responsabilità degli altri professionisti. L'esame della giurisprudenza in tema di responsabilità civile del professionista negli ultimi anni e l'incremento di cause di responsabilità professionale dell'avvocato, conforta tale affermazione. La disciplina codicistica cui bisogna far riferimento è quella dettata dall'art. 2236 c.c., inizialmente volta a tutelare esigenze corporativistiche, successivamente è stato interpretato in linea con il dettato costituzionale. In particolare con la sentenza n. 166 del 28 novembre 1973 la Corte Cost. ha affermato la legittimità costituzionale della norma “ritenendo non irragionevole la scelta del legislatore di graduare i presupposti della responsabilità in ragione della difficoltà della prestazione. “L'art. 2236 c.c. Risulta non più norma eccezionale ma applicazione concreta del principio di cui al secondo comma dell'art. 1176 c.c. al quale l'avvocato deve attenersi nell'esercizio dell'attività professionale”. La Cassazione (499/2001) ha altresì precisato che il rapporto tra le due norme è di integrazione per complementarietà per cui la regola generale è quella dettata dall'art. 1176 c,c, con riguardo alla natura dell'attività prestata, mentre quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà opera il 2236 c.c. delimitando così la responsabilità dell'avv. al dolo o colpa grave. L'avvocato in buona sostanza deve porre in essere un'attività diligente secondo lo standard professionale che in quel momento storico e in quella particolare situazione il giudice investito della questione ritiene sussistente “l'inadempimento del professionista non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile sperato dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell'attività professionale, ed in particolare del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione il criterio di cui all'art. 1176 c.c, sicchè la diligenza che il professionista deve utilizzare è quella media, cioè quella del professionista di preparazione professionale e attenzione medie, salvo il caso in cui la prestazione professionale involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, nel qual caso la responsabilità è attenuata, configurandosi la previsione di cui all'art. 2236 c.c. solo nel caso di dolo o colpa grave. L'accertamento relativo al se la prestazione professionale implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà è rimesso al giudice di merito ed il relativo giudizio è incensurabile in sede di legittimità sempre che sia sorretto da motivazione congrua ed esente da vizi logici o da errori di diritto (cfr. Cass. 7618/1997). L'ONERE DELLA PROVA In tema di responsabilità professionale in generale vale il principio secondo cui “il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma anche che questo è stato cagionato dalla insufficiente o inadeguata attività e cioè dalla difettosa esecuzione della prestazione del professionista, rimanendo a carico di quest'ultimo la dimostrazione della impossibilità a lui non imputabile della perfetta esecuzione della prestazione stessa (cfr. Cass. 2230/73). In tema di onere della prova bisogna far riferimento al superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato. La discussa distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato ha consentito nel passato alla giurisprudenza di stabilire un regime di prova dell'inadempimento senz'altro più favorevole al professionista-debitore, e ciò malgrado le critiche che in dottrina sono state levate contro tale sorta di distinzione (ricordiamo fra tutti il Mengoni). Bisognerà attendere il 2005 perchè la Giurisprudenza di legittimità faccia proprie tali critiche sancendo il superamento della distinzione sul piano sostanziale, verosimilmente sull'onda di altri pronunciamenti in tema di responsabilità medica che ne avevano già decretato il tramonto. La Corte di cassazione con la sentenza 13533 del 30/10/2001 ha tentato di ricondurre ad unità il regime probatorio con riferimento alle azioni previste dall'art 1453.c.c. La Corte sulla base di criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di vicinanza della prova, di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito, enuncia il principio secondo cui “in tema di inadempimento di un'obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dall'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento”, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di diritti accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza o per difformità quantitative o qualitative del beni) gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento”. Pochi anni dopo la Corte con due sentenza la 10297/2004 e la 11488/2004, in tema di responsabilità medica - operando un deciso mutamento rispetto al consolidato orientamento che chiedeva al paziente la prova dell'inadempimento del medico o della struttura sanitaria sulla premessa che la “relazione tra medico e paziente (o struttura sanitaria) e di carattere contrattuale - afferma “ che in base alla regola di cui all'art. 1218 c.c. (non compete al paziente provare la colpa, né tanto meno, la gravità di essa, dovendo il difetto di colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità (nel caso di cui all'art. 2236 c..) essere allegate e provate dal medico. Le S.U. Della S.C. con la sentenza n. 15781/2005 prima e con la 577/2008 dopo, hanno approfonditamente analizzato il tema relativo alla distinzione tra O di mezzi e O di risultato; nell'esaminare l'applicabilità dell'art. 2226 c.c. in tema di decadenza e prescrizione della garanzia per i vizi della prestazione d'opera, in particolare di un progettista e direttore dei lavori, hanno affermato che la distinzione tra O di mezzi e O di risultato ha solo carattere descrittivo e non ha alcuna incidenza sul regime di responsabilità ove è richiesto al professionista di attenersi a parametri molto rigidi di professionalità, notandosi come lo stesso standard di diligenza sia cresciuto sensibilmente, comprimendo l'area della colpa grave nei confronti di problemi tecnici di speciale difficoltà. Questo orientamento verrà come già detto ulteriormente avallato dalla sentenza n. 577/2008 che stempera ulteriormente la distinzione tra obbligazioni di mezzo ed obbligazioni di risultato laddove la Corte precisa: tale impostazione non è immune da profili problematici, specie se applicata proprio alle ipotesi di prestazioni d'opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni. Riconosce la Corte che in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, prende atto poi che la distinzione tra obbligazioni di mezzo e di risultato è stata utilizzata dalla giurisprudenza per risolvere problemi di ordine pratico quali la ripartizione dell'onere della prova tra le parti, e l'individuazione dell'obbligo ai fini del giudizio. Rileva che in qualche caso per ampliare la sfera di responsabilità del professionista si è operata “una sorta di metamorfosi dell'O. di mezzi in O di risultato mediante l'individuazione di doveri di informazione e di avviso definiti accessori ma integrativi, rispetto all'obbligo primario della prestazione ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione. Le S.U. Manifestano il loro dissenso in tema di nesso di causalità espreso lae pronunce a sezioni semplici, secondo cui è il paziente che deve fornire la prova del messo di causalità tra azione ed omissione ed evento dannoso, in quanto ciò è frutti della distinzione tra obbligazioni di mezzo e di risultato Affermano le S.U. che “ se può avere una funzione descrittiva è dogmaticamente superata quantomeno in tema di riparto dell'onere probatorio dalla sentenza n.13533/2001 e ribadiscono le motivazioni di cui alla sentenza n. 15781/2005. Quel che è importante evidenziare è che con la sentenza 577/2008 le S.U. richiamando quella del 2001 n. 13533 hanno affermato che il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2967 c.c in tema di responsabilità contrattuale è identico sia che il creditore agisca per l'adempimento dell'obbligazione ex ar. 1453, sia che si domandi il risarcimento per l'inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c. senza richiamarsi in alcun modo la distinzione tra O di mezzi e di risultato. Le S.U. affermano che “L'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per il risarcimento del danno nelle O c.d. Di COMPORTAMENTO (si evidenzia l'uso di questa espressione rispetto a quella tradizionale di O di mezzo) non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa o concausa efficiente del danno. Ciò comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, quale esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno comporterà al debitore dimostrare che tale inadempimento non vi è stato ovvero che , pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno”. Nella sentenza citata le S.U. hanno affermato il seguente principio di diritto: ”In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio, l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un'affezione ed allegare l'inadempimento del debitore astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Al debitore competerà dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”. COME rileva il principio della vicinanza dell'onere della prova nella cause di responsabilità professionale dell'avvocato? Di solito la responsabilità dell'avvocato è inerente ad una omissione: la decadenza dalla proposizione dell'appello, dall'opposizione, la prescrizione, la mancata partecipazione alle udienza: in tal caso graverà sull'avvocato l'onere di provare che nonostante tale omissione non v'è nesso di causalità tra omissione e danno. Si evidenzia tuttavia come sempre più sentenze della SC successive in materia di responsabilità dell'avvocato non si accontentino della mera allegazione dell'inadempimento imponendo al cliente di fornire la prova di idonei dati obbiettivo sulla scorta dei quali il giudice potrà valutare l'attività del professionista. La Cassazione con la sentenza n. 230 dell'11/1/10 ha affermato : “il rapporto professionale che lega l'avvocato al cliente comporta una obbligazione di mezzi e non di risultato sicchè l'inadempimento del professionista non può essere desunto dal mancato raggiungimento dell'utile al cui mira il cliente ma soltanto alla violazione del dovere di diligenza adeguato alla natura dell'attività esercitata”. Il patto di quota lite Nell'ottica di abolire la distinzione tra obbligazioni di mezzo e di risultato con riferimento alla prestazione dell'avvocato si inserisce la norma che ha previsto l'abrogazione del patto di quota lite. Il terzo comma dell'art,. 2233 c.c. che prevedeva tale divieto, è stato sostituito dall'art. 2 comma II bis del d.legge n. 223 4/7/2006 convertito il legge 248/2006, nella sua vigente formulazione tale norma prevede la nullità dei patti conclusi tra avvocati e praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono compensi professionali se non redatti in forma scritta. Da autorevole dottrina (Covucci, Ponzanelli) è stato dunque affermato che il subordinare gli onorari dovuti per l'assistenza e la consulenza alla vittoria di una causa indica chiaramente che non sono più l'assistenza e la consulenza ad essere remunerate, ma il conseguimento di un risultato preciso per il cliente, cui consegue il riconoscimento di un'utilità per il professionista. L'alea della remunerazione viene cioè fatta gravare sul professionista con un rivoluzionario superamento rispetto alla impostazione passata nella quale il carattere onorario non poteva essere messo in discussione. IL NESSO DI CAUSALITA' L'accertamento del nesso di causalità rappresenta sicuramente il momento più difficile nei giudizi di responsabilità: ciò in particolar modo con riferimento alle natura dell'obbligazione su cui si fonda la valutazione dell'inadempimento del professionista. Sull'argomento si registrano due orientamenti. In particolare le S.U. della Cass. con la sentenza n. 25266/2008 ha affermato che “in materia di responsabilità del professionista, il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma anche che questo è stato causato dalla insufficiente o inadeguata attività del professionista e cioè dalla difettosa prestazione professionale. In particolare, trattandosi dell'attività del difensore, l'affermazione della responsabilità implica l'indagine positivamente svolta sulla scorta degli elementi di prova che il cliente ha l'onere di fornire – circa il sicuro e chiaro fondamento dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata e in definitiva, la certezza morale, che gli effetti di una diversa attività sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente medesimo rimanendo, in ogni caso, a carico del professionista l'onere di dimostrare l'impossibilità a lui non imputabile della perfetta esecuzione della prestazione”. (Nella fattispecie il cliente contestava al proprio difensore la mala gestio in una causa in cui era stato convenuto per i danni subiti dall'attore in occasione di un incidente stradale. La mala gestio era indiscutibile ma i giudici di merito avevano escluso ogni rapporto di causalità tra la suddetta mala gestio e la soccombenza dell'assistito nella precedente causa (nello stesso senso Cass. 16846/2005, 4044/94). Invece numerose decisioni al criterio della certezza degli effetti di una diversa condotta hanno preferito quello della probabilità degli effetti a dell'idoneità di tale condotta a produrli (cfr. Cass. 9238/2007 con cui la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto che non vi era certezza, ma neppure la possibilità di accertare che la domanda potesse essere accolta, posto che non era dato conoscere quali fossero esattamente le circostanze sulle quali i testimoni avrebbero dovuto deporre). E anche Cass. 8151/2009 che conferma la sentenza di merito che aveva riconosciuto la responsabilità dell'avvocato per la mancata riassunzione di una causa per risarcimento danni da circolazione stradale dopo l'interruzione seguito della messa in liquidazione coatta della Compagnia di assicurazione convenuta dallo stesso avvocato. Da ultimo, tuttavia la Cass. (20828/2009) nel caso di mancata comunicazione al cliente dell'avvenuto deposito di una sentenza sfavorevole, con conseguente preclusione della possibilità di proporre impugnazione, ritorna sulla necessità per il cliente di “produrre mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame se proposto sarebbe stato accolto”, richiamandosi nell'applicazione dell'enunciato controfattuale, adottato per l'accertamento del rapporto di causalità ipotetica, derivante da condotta omissiva, al criterio del “più probabile che non “, già formulato dalla sentenza della Cass. 21619/2007 ancora una volta in tema di responsabilità medica sul presupposto che il nesso di causalità rappresenti “la misura della relazione probabilistica concreta tra comportamento e fatto dannoso (successivamente confermato dalla S.U. con la sentenza 581/2008. Nello stesso senso sono altre sentenze della Cassazione la 12535/2009 in tema di appello penale tardivamente depositato. Che afferma che “sostenere che basti la perdita, in se stessa, di uno o più gradi del giudizio, perchè si configuri il nesso causale tra comportamento negligente dell'avvocato ed esito infausto del giudizio, infatti equivale a sostituire un criterio di mera possibilità al criterio della ragionevole probabilità che necessariamente implica una prognosi sull'esito della lite basata sulla valutazione del merito della stessa: valutazione dalla quale il ricorrente prescinde del tutto dato che in ricorso non viene fatto alcun accenno al merito, neppure quanto ai contenuti che il giudice di appello avrebbe potuto rilevare. Pronunce recenti ingerenze sulle strategie processuali Le c.d. “Cause perse in partenza ” Sono le cause rispetto alle quali la soccombenza appare l'esito più probabile se non quasi certo. I tali casi la perdita dipende dalla oggettiva ed evidente fondatezza del diritto altrui e non dall'attività sbagliata del proprio avvocato. E tuttavia quando una causa appare persa sin dall'inizio l'avvocato non è esente da responsabilità e non può disinteressarsi della pratica affidatagli dal cliente, in attesa della scontata e prevedibile sentenza negativa. La fattispecie sottoposta all'attenzione della S.C. aveva ad oggetto l'acquisto di una Ferrari a non domino e l'acquirente ne aveva subito l'evizione. La Corte con la sentenza n. 15717/2010 nell'enunciare un principio di deontologia, professionale ancor prima che di diritto, fa delle valutazioni in ordine al contenuto della diligenza tecnica che deve informare l'attività professionale dell'avvocato affermando che “E' indubbio che – anche e soprattutto con riferimento alle c.d. Cause perse (ammesso e non concesso che tale fosse quella di che trattasi) all'attività del difensore, se bene svolta, può essere preziosa, al fine di limitare o di escludere il pregiudizio insito nella posizione del cliente... Il difensore può non accettare una causa che prevede di perdere ma non può accettarla e poi disinteressarsene del tutto, con il pretesto che si tratta di causa persa. Egli in tal modo espone il cliente all'incremento del pregiudizio iniziale, se non altro a causa delle spese processuali a cui va incontro, per la propria difesa e per la difesa di controparte. Correttamente ha rilevato la Corte di appello che sarebbe stato onere dell'avv. …..... quantomeno quello di attivarsi per trovare una soluzione transattiva comportamento che è da ritenere doveroso … ove si accetti di difendere una causa difficile e rischiosa per il proprio assistito”. Da ciò consegue che l'avv. prima di tutto deve informare il cliente della scarse o nulle possibilità di successo insite nella causa che gli viene affidate e delle possibili conseguenze pregiudizievoli di una partecipazione al giudizio. Deve altresì svolgere una attività di dissuasione, rivolta a convincere il cliente a desistere dal proprio intento di agire o resistere in giudizio. Il difensore può decidere di non accettare una causa che prevede di perdere. Se il professionista non adegua la propria condotta ai sopra enunciati principi egli non adempie correttamente all'incarico affidatogli ed è quindi tenuto a risarcire i danni derivanti da una inadeguata attività. In tal caso il danno va rapportato alle spese sostenute per la propria e la altrui difesa. Ed ancora la Cassazione è intervenuta anche con riferimento alle strategie processuale adottate dall'avvocato. Con l'ordinanza 17506 del 26/7/2010 La Cassazione respinge per manifesta infondatezza il ricorso contro una sentenza di condanna di un avvocato a risarcire al proprio cliente i danni derivanti dalla violazione del dovere di diligenza professionale, nella scelta delle strategia processuale adottata. In questo fattispecie l'avvocato per recuperare i compensi spettanti al proprio cliente architetto nei confronti di terzi, piuttosto che procedere al procedimento monitorio che avrebbe garantito un sollecito soddisfacimento del credito stante l'abbondante documentazione a disposizione aveva promosso un giudizio ordinari